La malizia della complicità

Sapevo che non sarebbe stato un Venerdì qualunque. Lo sapevo fin dalla mattina, da quanto mi sono vestita. Il mio intimo non ha fatto in tempo a esser indossato che era già bagnato della mia voglia. E quando è così di prima mattina so già che la giornata sarà intensa. Oggi ho fatto due passi in pausa pranzo, volevo godermi l’aria fresca unita al vago tepore del debole sole di mezzogiorno. In realtà avevo voglia di muovermi, dopo una mattinata impegnativa. Le mie Louboutin hanno camminato su strade che esulano dall’abituale quotidianità della routine. Vorrei continuare a camminare ancora ma l’incombere del rientro mi fa decidere di mangiare qualcosa al volo.

Mi siedo al tavolo anonimo di un bar qualsiasi incontrato per caso sul tragitto percorso, ordinando all’indolente cameriere che segna distrattamente il mio pranzo su un taccuino prima di tornare stancamente dietro al bancone riappoggiando il cencio che teneva sulla spalla. Inganno l’attesa scambiando qualche messaggio sul mio iPhone prima di assaporare il gusto piacevolmente inaspettato di quanto ordinato.

Entrano quattro yes-man perfettamente omologati in tutto, strangolati da cravatte discutibili e si siedono al tavolino accanto al mio. Li osservo nella loro perfetta uniformità tanto da poter esser intercambiabili l’uno con l’altro e forse lo sono davvero all’interno di una società piatta come le loro vite, almeno a giudicare dalla sensazione che percepisco nel sentirli ragionare e ridere per battute grette e triviali. Però oggi non era una giornata normale, come ho pensato fin da stamani. E in qualche modo sentivo i loro sguardi su di me, sulle mie gambe accavallate e ben in vista sotto lo scarno tavolino su cui mangio.

Mi eccita terribilmente sentirmi osservata, guardata, posseduta dalle loro voglie e dai loro istinti voyeuristici. Condivido con un’amica le sensazioni che mi sento dentro e dopo qualche abituale e irrilevante convenevole, mi viene improvvisa l’idea che segnerà per entrambe questa giornata. Le chiedo di immedesimarsi in me, di immaginarsi qui e di suggerirmi cosa fare, come se fossi lei. In realtà, data la complicità e l’affinità elettiva che ci ha unite in un’amicizia straordinaria, io è come se fossi davvero lei e lei me. Inizia un gioco pirotecnico di sovrapposizione emotiva e passionale in cui entrambe viviamo la fortissima sensazione del momento.

Difficile d’ora in poi dire chi ha deciso di fare cosa. Fisicamente ero io lì seduta a giocare con la malizia delle mie gambe accavallate, ma emotivamente eravamo in due a guidarci con le proprie idee e a suggerirci reciprocamente maliziosi espedienti per scombinare la perfetta quadratura degli yes-man seduti al tavolo accanto. Accavallo più volte le gambe, con estrema lentezza, facendo finta di non accorgermi delle loro voglie riflesse su di me. Faccio cadere una penna con una suggerita volontaria casualità e, sporgendomi dalla sedia per raccoglierla, regalo un altro intrigante scorcio della mia malizia al tavolo accanto.

Cerco di restare il più credibilmente a lungo piegata per concedere loro un’adeguata visione che appagherà solo momentaneamente i loro sguardi, proprio quegli stessi sguardi che sento penetrarmi l’anima eccitandomi. Mi ricompongo, passandomi una mano fra i capelli e spostandomeli dietro l’orecchio, reclinando leggermente la testa su un lato, con la lentezza e la sensualità tipica di un’altra attenta e suggerita malizia. Fingo ancora un pensiero che è ben lontano da me, appoggiando l’indice smaltato di rosso sulle mie labbra, prima di farlo tornare sul tavolo accompagnato da un lieve sospiro. Non li guardo direttamente, ma il silenzio più o meno improvviso del tavolo accanto mi provoca la presunzione di esser oggetto dei loro pensieri. E mi eccita da morire.

Un altro malizioso suggerimento mi porta a girarmi verso i quattro cloni a chiedere una penna, dopo che, volontariamente, l’ho fatta cadere di nuovo prima di chinarmi ancora per raccoglierla e fingendone il suo malfunzionamento. Nel rivolgermi a loro mi è venuta fuori, stavolta davvero involontariamente, una voce che tradiva tutta la mia eccitazione e la mia voglia. Poco dopo mi ritroverò a scrivere una frase oscena su un postit colorato appena tirato fuori dalla borsa. Lo piego in due e lo appoggio sul tavolo portandomi la penna alla bocca, appoggiata alle mie labbra prima di lasciarla sul tavolo. Accavallo di nuovo le gambe portandomi ancora la penna sulle labbra. Poi mi alzo in piedi, mi sporgo in avanti per restituirla scusandomi per averla sporcata di rossetto «senza accorgermene».

Cammino verso il bagno condividendo con la mia amica qualche messaggio sul mio stato di eccitazione. Entro. Mi appoggio alla parete, avrei voglia di toccarmi ma mi trattengo. Le mie mani finiscono sui seni, da sopra il vestito, sfiorandoli appena e facendomi uscire un gemito spontaneo. Cerco di riprendere un attimo il controllo. Esco. Trovo ad aspettarmi nell’antibagno uno dei quattro. Mi guarda, in silenzio. Vado verso di lui, e senza fargli aprire bocca lo spingo contro la porta di ingresso, baciandolo con foga. Le sue mani scorrono su di me, adesso, finendo col tirarmi su il vestito. Non gli do il tempo di capire quanto sia bagnata, mi piego sulle ginocchia slacciandogli i pantaloni. Dopo poco le mie mani libereranno tutta la sua eccitazione, accolta da quelle stesse labbra che gli avevano sporcato di me la sua penna. Resta appoggiato alla porta, facendola vibrare ad ogni movimento della mia testa che fa affondare in me tutto il suo desiderio. Mi rialzerò dopo pochi movimenti, col viso grondante della sua eccitazione. Giusto il tempo che un fazzolettino mi ripulisca l’anima, poi esco dal bagno, riprendendo la giacca lasciata alla sedia. Il bigliettino è ancora lì, pronto per essere ignorato o per essere motivo di eccitazione a chi si siederà al mio posto. I tre rimasti al tavolo mi guardano e ridacchiano nella loro stupida complicità maschile, magari fantasticando sulla prolungata assenza del loro quarto sodale. Pago. Esco. Ancora più eccitata di prima.

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