Sempre in gioco

Cammino per le strade di una città non mia, calpestando passo dopo passo frammenti di emozioni di un luogo che, seppur bellissimo, non mi appartiene. Sono a un Frecciarossa di distanza dalla mia «Fiorenza» (come piace chiamarla a noi nativi) che porto sempre dentro di me. Sarò presuntuosa e, forse, un po’ spocchiosa e polemica come solo i miei concittadini sanno esserlo, ma se non si è nati a Firenze non si sa cosa voglia dire portarsi la città dentro. Sono cambiate un po’ di cose nell’ultimo anno. Non solo dentro di me. Vivo in trasferta per gran parte della settimana. Non è facile. Mi sono chiesta spesso se ho fatto la cosa giusta nell’accettare. E mi sono sempre risposta di sì. La vita è fatta di bivi. E io ho sempre imboccato quello meno facile. Mi sono messa alla prova e ho messo a nudo la mia anima. Forse la mia vera anima è qui, in queste poche righe di post, in questo blog. Forse è in riva al mio Arno a sentire la brezza leggera delle emozioni portate via da un’ondata forte e improvvisa che talvolta fa pulizia di rami secchi e di un po’ di svogliata apatia. O forse è nelle emozioni e nelle passioni che vivo e che racconto. Ma ci sono. Ed è quello che conta. La giornata non è stata delle migliori, avendo avuto a che fare con persone grette, discutibili e dal giudizio facile. Per una giornata marrone, più che grigia, come questa, l’asetticità di un albergo impeccabile è concettualmente insopportabile. Voglio persone schiette, sorrisi sinceri e scanzonati, occhiate maliziose. Voglio chiacchierare, parlare, incontrare, discutere, scambiare opinioni. Non ho voglia di immancabili mascalzoni che giudicano chi io possa essere dai centimetri di gambe scoperte. Lo so. Ci sono e ci saranno sempre. Ovunque. A ogni latitudine e a ogni longitudine. Ma ho deciso di vivere a pieno la mia vita «e in culo a tutto il resto», prendendo in prestito un verso del Maestrone. E evito di esternare ciò che penso di chi si meraviglia che più o meno un metro sopra le mie gambe ci sia un cervello che sa pensare e articolare discorsi. Ma forse non arrivano nemmeno a vedere tanto in alto. Poveretti.

I piccoli sorsi di birra rossa vanno giù lentamente, aiutando a dimenticare amarezze e difficoltà. Mi basta poco per archiviare una giornata difficile e per ricacciare in fondo all’anima sensazioni di arrendevolezza che non mi devono più appartenere. Mi piacciono i pub. L’atmosfera soft che vi si respira, le luci soffuse che creano un mood particolare. Sono sola. E già questo dà adito a pensar male di me ai benpensanti che non sanno guardare oltre il tacco dodici di stasera. Come ho già detto, mi piace essere osservata. Sensazione difficile da definire ma sicuramente piacevole. E mi piace incrociare sguardi, raramente decisi, spesso fugaci ma pur sempre ipocriti di persone che fanno fantasie ma che si nascondono dietro lo scudo di una incomunicabilità palpabile, latente e persistente. Soprattutto mi piace condurre il gioco e, talvolta, sparigliare le carte, scombinando certezze e infrangendo le comuni regole che ti omologano in categorie ed etichette. Mi siedo a bere la mia rossa belga, accavallo le gambe sfregando il nylon dei miei collant neri. La gonna è sufficientemente corta da rivendicare la mia femminilità. Ricambio sorrisi talvolta imbarazzati, talvolta aperti. L’immancabile uomo d’affari cerca di attaccare bottone e di attirare la mia attenzione parlando di yacht, macchinoni, piste da sci e lusso a gogo. Ma non appena capisce che i cavalli che mi interessano sono quelli nel cervello e non quelli nei motori che, secondo me, compensano ben altre mancanze, si allontana quasi meravigliato di aver rinunciato a tali profferte. «Se sapessi a cosa ho rinunciato non troppo tempo fa…» penso dentro di me… mandandolo a fanculo mentalmente. Non gli darò mai la soddisfazione di sfancularlo a voce. Così resterà col dubbio su cosa possa pensare di lui e magari si gongolerà ritenendo che possa aver risvegliato in me qualche interesse. Scambio due chiacchiere col barman, persona affabile e inquadrata, dal forte e delizioso accento sabaudo che tira avanti il locale con la compagna che ha superato l’iniziale diffidenza nei miei confronti. Lascio il cappotto sulla panca di legno scuro e prendendo la borsetta mi incammino verso il bagno. Ricambio ancora un po’ di sorrisi prima di fermarmi ad attendere il mio turno nel corridoio silenzioso. Mentre aspetto, arriva un bel ragazzo, trentenne senza averne l’aria, moro, barba incolta, sguardo celeste che ti taglia in due. Gli sorrido. Anche lui aspetta. Mi appoggio con la schiena al muro, apro la borsetta per estrarre il rossetto che andrà a sottolineare la passione delle mie labbra. «Vuoi lasciare il segno?» mi dice ridendo. Apprezzo l’intraprendenza e rilancio, d’istinto. «Non mi serve certo il rossetto». Rido anch’io. Faccio finta di rimettere a posto il mio Dior ma in realtà lo lascio cadere a terra di proposito. Si avvicina e si china a raccoglierlo. È lì, davanti a me, la sua mano sta per prenderlo a terra. Gioco d’istinto. Ancora. Porto la mia scarpa sul rossetto, come per fermarlo. Mi guarda per un istante dal basso. «Fai pure con calma», gli dico sorridendo e togliendo la suola, facendoglielo raccogliere. Me lo porge. Lo guardo dritto negli occhi, le mie dita lo raccolgono dalla sua mano forte e decisa. Lo prendo con pollice e indice e spostandomi appena lo lascio cadere di nuovo. Si china di nuovo, ma stavolta si prende tutto il tempo per scorrere con lo sguardo il nylon velato che copre le mie gambe. Rialzandosi la sua mano mi sfiora leggermente la coscia e mi accarezza il polso. «Grazie, ora lo posso rimettere a posto». Si apre la porta del bagno, esce una ragazza che passa fra di noi prima di sparire di nuovo nel locale. Entro in bagno. Quando esco non c’è più. Stupido.

1 commento su “Sempre in gioco

  1. Un vero peccato che non abbia raccolto un invito tanto elegante quanto eccitante.
    La prossima volta dimmi qual’è il Pub, non sprecheremo l’occasione.

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