Maliziosa

Cammino sulle mie decollete rosse tacco dodici. Tanto bellissime quanto impersonali se non altro per il modo con cui le ho avute. Forse la prima cosa non scelta da me. Ero indecisa se metterle o meno, poi ho scelto di giocare. A modo mio, come sempre. Non le ho messe quando mi era stato chiesto, adesso gioco come dico io, vediamo se il messaggio arriva a chi di dovere. All’ignoto mittente di fantasie non dette, al misterioso ego che si cela dietro un biglietto scritto con un’emozione impeccabile. Il rintocco del sottile tacco risuona per il corridoio, mi salutano colleghi più o meno sconosciuti chiedendomi delle ferie, qualcuno mi invita a fare due chiacchiere, mi presto volentieri a qualche pubblica relazione di troppo, pur di ritardare l’inizio effettivo del lavoro. Parlo amabilmente con colleghi che hanno lo sguardo altrove, difficilmente mi guardano negli occhi se non per un fugace istante che presto si smorza nel loro ipocrita rossore. Cerco di tenere il mio sguardo dritto negli occhi dell’interlocutore, senza esser ricambiata. So che distolgo l’attenzione verso altre parti e mi piace, però speravo che almeno durante un dialogo ci si possa guardare l’un l’altra. Evidentemente mi sbaglio…

Il collega parla senza saper dove volger lo sguardo. Quasi ad ogni parola la vista cade sulla mia scollatura. Ok, contrattacco. Inizio a giocherellare con nonchalance con il primo bottone della camicetta, passandoci le dita, ruotandolo, quasi a dar l’impressione che lo volessi sbottonare. Ovviamente non lo farò… ma il gioco riesce quel tanto che basta dal monopolizzare la direzione mentale e visiva dell’interlocutore. Mi piego in avanti sulla sua scrivania per prendere una penna e facendo finta di sceglierla fra le miriadi presenti in un microscopico contenitore, tengo la posizione quel tanto che basta a renderlo imbarazzatissimo nel vedere, forze parzialmente, non so, quello che magari aveva solo immaginato. Adesso non lo sto guardando, ma lo percepisco dall’improvviso silenzio e dal successivo imbarazzo che intuisco rialzandomi. Lo saluto e riprendo la mia camminata quotidiana lungo l’interminabile corridoio.

Entro nell’ufficio e quasi non trovo la scrivania sotto la pila di carte, cartelle, cartelline e raccoglitori che si sono accatastati in soli sette giorni di mia assenza. Il «Ciao splendida» del collega piacione oltre a confermare quanto di male possa pensare di lui mi passa quasi del tutto inosservato… Lo guardo con aria interrogativa indicando la mia ormai teorica postazione. Si stringe nelle spalle e capisco che è inutile chiedere oltre. Lancio con rabbia la mia borsa nell’unico angolo rimasto libero. Ovviamente nessuno ha fatto il mio lavoro durante la mia settimana aggiuntiva di ferie ed è impensabile di quanti fogli, pratiche e quant’altro si possa ricoprire una scrivania in un così breve tempo. Non riesco nemmeno a vedere la tastiera. Reagisco in modo spropositato per i miei modi e per i miei gusti, ma non ce la faccio a far diversamente. Scosto la sedia e facendo salire una mia decollete rossa l’appoggio sulla seduta e la spingo via con forza, andando a colpire l’idiota che condivide con me la stanza. Si gira di scatto e vorrebbe dirmi qualcosa quando mi vede prendere tutti i fogli e gettarli in terra per liberare il piano di lavoro. Le parole gli si strozzano in gola e resta a guardarmi camminare con i miei tacchi sulle cartelline accatastate in terra. Lo gelo con lo sguardo e torna a girarsi verso il suo PC senza dire una parola. Restando in piedi davanti alla scrivania cerco di rassettarla in modo da renderla almeno vivibile. In sottofondo l’arrivo delle quasi 1400 mail non lette riempie di scritte in grassetto lo schermo del mio PC.

Inizio a cancellare l’immancabile spam quando entra un collega a chiedermi di una pratica e resta interdetto dal vedermi in piedi con tutti i fogli a terra, anche calpestati dai miei tacchi dodici. Lo guardo con aria gelida dicendogli che se si tratta di uno di quelli che ha contribuito a trasformare la mia scrivania in una discarica può accomodarsi a cercare i fogli lì in terra. Il tono probabilmente dev’esser stato un po’ minaccioso o almeno imperioso a giudicare dalla sua assoluta assenza di repliche. Poi con la coda dell’occhio lo vedo chinarsi dietro di me per raccogliere i documenti. Solo in un secondo tempo mi rendo conto di aver creato del tutto involontariamente una situazione particolare… io che sono lì in piedi davanti al mio monitor a cercar qualche e-mail a cui dare la priorità prima di rimettere a posto l’arretrato… ed un collega dietro di me a raccoglier i documenti che ho lasciato cadere a terra in un momento di rabbia. Non so se lo faccia davvero, ma inizio a pensarlo intento ad osservarmi da dietro, da una posizione ed una visuale decisamente insolita e particolarmente maliziosa.

Mi piace l’idea di saperlo lì dietro di me, fantastico sul suo sguardo che cerca la mia intimità e decido di regalargli una, almeno ipotetica, miglior visuale. Mi piego un po’ in avanti sulla mia scrivania, con un gesto simile a quello mattutino in cui avevo però di fronte l’altro collega. Poi mi giro di scatto e vedo che il suo sguardo non stava certo cercando documenti. Faccio finta di niente e mi abbasso anch’io per aiutarlo non curandomi troppo di quanto possa aver messo in mostra così facendo. Gli spiego il momento di rabbia mattutino nel trovar la scrivania sommersa, lui mi rassicura cercando di aiutarmi. Mi rialzo in piedi per metter a posto una prima pila di documenti. Sento che la mini mi è salita fin troppo in alto, ma la lascio così com’è… regalando qualche momento di piacere aggiuntivo a lui che mi guarda e a me che, almeno nel mio immaginario, sono attentamente osservata. Pochi istanti dopo tutti i documenti che erano a terra sono disordinatamente ordinati in tre pile.

Adesso posso aggiustarmi la mini, facendola tornare al suo posto. Il collega rialzandosi si appoggia alla scrivania e mi fa i complimenti per le mie decollete. Cammino a riprendere la sedia cercando nel pur brevissimo tratto che percorro di essere il più sensuale possibile. Tornando indietro mi metto a sedere accavallando lentamente le gambe e mostrandogli le scarpe, muovendo, quasi roteando, il piede. Riesce anche, inaspettatamente, ad andare oltre dicendomi, anzi quasi sussurrandomi forse per non farsi notare dal mio collega di stanza, che sono sempre molto sensuale. Lo ringrazio sorridendo e facendogli occhiolino, cercando di smorzare un po’ la tensione che aveva creato. Si alza ed esce dalla stanza, senza alcuna pratica in mano. Probabilmente era solo una mera scusa per far due chiacchiere o, forse, se ne è semplicemente dimenticato. Tornerà.

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