Colpito e affondato

Il telefono non ha mai smesso di squillare, ci sono delle mattine in cui lo odio. Profondamente. Lo scoccare dell’ora della pausa pranzo è salutato da tutti con particolare sollievo… Tanti si preparano già minuti prima per esser pronti a schizzare via ed evacuare i locali quasi come se ci fosse una calamità naturale. Anche io, lo confesso, ho fatto le corse in passato… Poi mi sono chiesta il perché di tutta questa frenesia nell’uscire subito… quasi ci fosse una gara. Forse c’è qualcosa di atavico che ci porta a comportarci sempre come se fossimo sempre in competizione gli uni gli altri. Bah! Lasciamo perdere. Attivo la casella vocale, sposto la mia sedia aggiustandomi accuratamente i lembi della minigonna spiegazzata dalla posizione. Prendo la borsa sempre troppo grande, ma non mi sono mai posta il problema di cosa ci possa essere dentro… ormai non lo so più nemmeno io… Probabilmente un piccolo kit di sopravvivenza. Cammino lentamente per i corridoi deserti. Tutti a corsa si sono accalcati a fare inutili file davanti gli ascensori. I pochi rimasti in ufficio, e solo perché bloccati da qualche imprevista telefonata, stanno imprecando mentalmente per poter uscire prima possibile. Si legge loro sul viso. Mi soffermo davanti ad una vetrata a specchio per aggiustarmi. Tutto a posto. Soddisfatta proseguo il mio lento cammino, scandito dai passi sul pavimento lucidato perfettamente dalle bravissime addette, sicuramente sottopagate per il mazzo che si fanno. Sento delle voci in un ufficio, un altro collega che parla concitato al telefono, la conversazione a distanza termina proprio mentre passo. Mi soffermo a salutarlo. «Che ci fai ancora qui?» gli chiedo sorridendo… e la sua risposta mi fa capire che ci possono essere ancora persone con un po’ di sale in zucca. «Che ci faccio qui? Mi preferiresti vedere combattere fantozzianamente per prendere l’ascensore? Naaa… Mi vuoi male.» Sorrido divertita, pensando all’ipotetica scena. «Posso entrare?» gli chiedo. La ovvia risposta mi arriva con un ampio gesto della mano. Mi accomodo su una delle sedie di attesa davanti la sua scrivania. Lui si appoggia allo schienale per rilassarsi un po’. Il suo sguardo va sulle mie gambe che sto accavallando proprio in quel momento. Non mi sento di usare parole spiacevoli nei suoi confronti, anche perché non si cela dietro ad un dito… come fanno gli altri. Fa un cenno di approvazione con la testa mentre guardandomi negli occhi esprime anche senza parole il suo apprezzamento nei miei confronti. Poi dalla sua bocca escono poche parole… «Complimenti. Sensualissima». Ringrazio sorridendo… e poi continua «Hai dato un cambio netto alla tua vita? Brava! Hai le palle». Presumo che nel gergo maschile da pseudo-caserma sia l’equivalente della massima onorificenza concedibile ad una rappresentante femminile. «Sì. Ci hai ‘nzertato» gli dico ricorrendo ad una parola del suo dialetto di origine. Sorride. «E che tacchi… non ti avevo mai vista così… in tiro». I suoi occhi sono tornati sulle mie gambe e stanno scendendo verso le mie scarpe… Lo confesso, mi fa piacere essere guardata, ed essere guardata così… Ma conduco io il gioco, stavolta. «Se ricordo bene anche a tua moglie piacciono le scarpe con tacco alto, no?». La sottile perfidia della frase non scompone la sua classe, mi guarda sorridendo. Colpito e affondato.

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