La sala d’attesa

Sono seduta in sala d’attesa, tra le mani un’anonima rivista che uso per sfogliare i miei pensieri senza prestare la minima attenzione al contenuto. Mi godo il breve ritardo del cliente per tuffarmi in un attimo di pausa all’interno di una mattinata un po’ troppo convulsa per i miei gusti. La musica della radio, diffusa chissà da dove, fa da sfondo al silenzio dei miei pensieri, interrotti da un “buongiorno” di troppo. Rispondo meccanicamente e quasi senza pensare, insolitamente distratta rispetto a tutto ciò che mi circonda. Abbandono il giornale sul tavolinetto mentre mi stiracchio per riprendermi dal vago torpore e incrocio lo sguardo di chi mi siede davanti dall’altra parte della stanza, prima che i suoi occhi scendano sulle mie gambe. Mi scappa un mezzo sorriso, mentre muovo lentamente la gamba accavallata facendola dondolare… prendo un’altra rivista a caso… la sfoglio fingendo attenzione. Mi piace immaginare lo sguardo su di me… sulle mie gambe, messe ben in vista dal miniabito che indosso oggi.

Sollevo la rivista, come per legger meglio qualcosa e cambio posizione, scavallando le gambe con un movimento lento, immaginandomi che chi mi siede davanti stia cercando di scrutare l’intimo bianco che indosso oggi. Mi aggiusto sulla sedia, accavallo l’altra gamba. Il vestito sale leggermente. Mi viene istintivo di portare una mano a tirarlo giù, ma alla fine lo lascio dov’è… sfiorandomi la gamba con le dita. Immagino lì davanti gli occhi di chi mi sta leggendo… che si fondono con quelli dell’anonimo e silenzioso “compagno di sala d’attesa”. Lascio la rivista e mi sporgo sulla sedia accanto a cercar qualcosa, che non troverò, nella borsa. Faccio scendere la gamba accavallata e la lascio spostarsi dietro alle sollecitazioni dei miei movimenti. Arriva il mio turno. Mi alzo in piedi, lasciando il miniabito così come lo sento, senza aggiustarlo. Raccolgo la borsa, rimettendo dentro quel poco che tenevo in mano e attraverso la sala d’attesa. Lentamente. Passo dopo passo, camminando con calma davanti a lui. Non lo guardo. Cammino, ma sento i suoi occhi su di me. Sulle mie gambe e su quanto si sia divertito ad immaginare. Sicuramente sempre meno di quanto non abbia immaginato io. Mi accomodo nell’ufficio in cui dovevo andare, chiudendo la porta su una situazione estemporanea che non ritroverò alla mia uscita.

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